martedì 1 aprile 2008

una strage che dura da più di cinquanta anni


LETTERA APERTA A TUTTE LE ISTITUZIONI
SULLA QUESTIONE AMBIENTALE
AUGUSTA-PRIOLO-MELILLI


Circa 100 morti di cancro ogni anno da oltre trent’anni, uno su tre;
circa 25 bambini nati con varie malformazioni ogni anno da quasi trent’anni.
Un’impressionante serie di incidenti sul lavoro con morti e feriti durante tutto l’arco di tempo dell’era industriale.

Non riesce più possibile calcolare il numero esatto di quelle vittime che hanno sacrificato la loro vita e la loro salute per svolgere quell’attività che avrebbe dovuto garantire un giusto salario ed una tranquillità di vita a sé stessi ed alle loro famiglie.

Un lavoro che avrebbe dovuto essere gratificante, sicuro, ma che sul nostro territorio non si è rivelato tale.

Sono ormai più di cinquanta anni che sul nostro territorio, si è insediato il più grande polo chimico e petrolchimico d’Europa, insieme ad altre industrie minori. Quel polo petrolchimico che tante volte ci ha fatti salire in prima pagina, ma in negativo, anche sulle testate nazionali.

Ogni qualvolta fornivamo ai giornalisti (che da altre parti d’Italia ci contattavano per avere notizie sulla nostra vicenda ambientale), l’elenco degli impianti o delle aziende operanti sulla nostra terra esclamavano meravigliati:
incredibile. (In altre parti d’Italia bastava l’inquinamento di una sola industria a far gridare allo scandalo. Qui no!)

Esso, Buzzi, Enel, Enichem, Erg, Agip, Union Carbide, Dow Chemical, le grandi multinazionali da diversi decenni si sono impadronite della nostra terra, del nostro mare, della nostra acqua, della nostra aria, ipotecando anche il nostro futuro.

Indubbiamente la presenza del polo petrolchimico ha radicalmente cambiato l’aspetto di questo territorio con risvolti economici, culturali, sociali, ambientali positivi e negativi così come ogni altra realtà originata dall’uomo.

Ma da diverso tempo, superato il boom economico degli anni ’60, si sente dire sempre più spesso che il binomio lavoro-benessere, in questo territorio, si è definitivamente spezzato.

Ne sono prove inconfutabili

1. il decreto del Ministero dell’ambiente del 30 novembre 1990 con il quale si dichiarava questo territorio “AREA AD ELEVATO RISCHIO DI CRISI AMBIENTALE” dichiarazione che veniva ad assommarsi a quelle di ALTO RISCHIO SISMICO e MILITARE,

2. e l’allarme igienico-sanitario che ha spinto perfino l'Enea e l’OMS ad attenzionare questo territorio.

In verità ci saremmo aspettati un intervento decisivo da parte delle istituzioni fin dal 1980 quando l'Istituto superiore di Sanità intervenne ad Augusta per la prima volta dopo la prima denuncia ufficiale della nascita dei bambini malformati, ma fino ad oggi, 25 anni dopo, a parte cifre e statistiche, lo Stato non ha fatto sentire con efficacia la sua presenza. Anzi ne abbiamo sperimentato - più che l’assenza - la latitanza, come potemmo constatare fin dalle prime ore di quel tragico mattino del 13 dicembre 1990.

Periodicamente, ma solo dopo gli incidenti, in talune assemblee in fabbrica o in vista di scadenze elettorali, da certi ambienti aziendali, politici e sindacali si ritornava a parlare per qualche giorno di sicurezza, di sviluppo eco-compatibile.

Anche dopo il disastro dell’ICAM del 19 maggio 1985, dopo l’ennesima evacuazione di massa, ci si ostinava a sostenere, con un atteggiamento marcatamente ipocrita, che la convivenza tra industria ed ambiente era possibile e che i cosiddetti “verdi” (cioè il movimento ambientalista) la dovevano smettere con queste “sceneggiate”.

Parole più o meno simili furono pronunciate da altri sindacalisti tre mesi dopo il sisma del 1990, sisma che all’istituto nazionale di geofisica e nelle sale del dipartimento della protezione civile, aveva tenuto per diversi giorni col fiato sospeso scienziati e ministri.

Dopo 56 anni di industrializzazione non siamo più degli sprovveduti, che crediamo alla favola che industria e ambiente possono o debbono convivere.
Con una o due fabbriche forse sì, ma con un polo petrolchimico di queste dimensioni certamente no.

Si grida ormai da più parti, anche dalle giovani generazioni, - più consapevoli del problema ecologico globale - che ogni attività lavorativa debba salvaguardare il territorio su cui si svolge e che il lavoro deve servire per vivere e non per morire.

Sul nostro territorio, tale verità, però, sembra essere stata sopraffatta da un altro comune modo di dire: “meglio morire di cancro che di fame”.
L’ho sentita ripetere spesso questa dichiarazione.

Chi per decenni ha pensato solo al profitto ha tentato di inculcarlo alle nuove generazioni come la logica conseguenza che al cosiddetto “progresso” dobbiamo “pagare un prezzo”, anche alto, molto alto.

A ciò si aggiunga la forza del “ricatto occupazionale” imposto agli abitanti e lavoratori di un territorio dove, dopo aver distrutto le attività lavorative locali preesistenti, e dove la preponderante - quasi unica - presenza dell’attività chimica e petrolchimica, impedisce perfino di immaginare la possibilità di uno sviluppo diverso, più consono alla vera vocazione di questa terra.

Già dagli anni ‘70 questo polo petrolchimico fa parlare di sé, ormai, normalmente in modo negativo. Si sono eclissati definitivamente gli aspetti positivi fatti intravedere all’inizio del processo di industrializzazione per lasciare spazio ad altri aspetti preoccupanti sia per il presente e sia per il futuro.

Augusta-Priolo-Melilli pur rimanendo ancora una forte realtà produttiva non solo a livello locale, ma anche nazionale ed oltre, (Augusta-Priolo-Melilli) non sono più una realtà solo produttiva in termini di “lavoro e ricchezza”, ma sono produttive anche di problemi sociali ed ambientali di rilevantissima entità, che non possono essere affrontati solo superficialmente e non possono essere più ignorati.

E’ vero che il degrado ambientale è divenuto una questione planetaria, ma è pur vero che gli abitanti della zona a nord di Siracusa non vedono più questo problema come un fatto lontano nel tempo e nello spazio, ma lo sperimentano, ormai da decenni, quotidianamente, sulla propria pelle, sulla propria carne e su quella dei propri cari, oltre che su quella di tutte le componenti dell’ecosistema.

Non c’è più una sola famiglia nel triangolo cosiddetto “industriale” - oggi meglio conosciuto come “triangolo della morte” - che non abbia avuto a che fare con qualche patologia correlabile all’inquinamento.

I dati statistici raccolti con coraggio e tenacia da un medico, spesso isolato e talvolta anche incompreso ed osteggiato, - ma solo da chi sulla riva opposta si arricchiva o governava speculando sulla salute o sulla fame di lavoro dei cittadini - hanno trovato, invece, conferma presso organismi istituzionali, anche sopranazionali, ad altissimo livello, che, purtroppo, ancora non hanno trovato altrettanto coraggio per intervenire almeno solo a livello preventivo.

Aspettiamo ancora, infatti, l'attuazione di quell'indagine epidemiologica su campioni significativi della popolazione, che pure il decreto del 1990 prescriveva.

In base a questi dati si è accertato quanto incida ed abbia inciso, in modo particolare, il cancro nelle cause di mortalità degli operai e degli abitanti dei comuni adiacenti al polo industriale.



Non possiamo dimenticare neanche i tanti fenomeni che hanno interessato in negativo il mare di questa parte della Sicilia a partire dalle tante morie di pesci succedutesi nelle acque della rada di Augusta, e neanche può passare sotto silenzio la dolorosa vicenda dei tanti bambini nati con malformazioni più o meno gravi.

Si dice più o meno apertamente, da almeno venticinque anni, che tutto questo è causato dall’inquinamento industriale.

Anche se dalle controparti si risponde con il classico “qui è tutto in regola” e che non è dimostrata l’equazione “inquinamento = cancro” è vero anche che certi sospetti, allorquando i controlli non sono avvenuti o sono stati “addomesticati” equivalgono a sicure certezze, per le quali si dovrebbero cercare i responsabili, non solo locali, ma anche ad alti livelli, compresi quelli istituzionali nazionali e regionali che non sembrano tenere in alcun conto la sofferenza della nostra gente.

È notorio che (di fronte alle pressioni ed alla forza politica ed economica dei grandi gruppi industriali e delle multinazionali) i singoli e privati cittadini, come anche le associazioni di cittadini, di Augusta e dintorni non hanno i mezzi tecnici ed economici per controllare le fonti dell’inquinamento o per scoprire chi inquina o per far valere le proprie ragioni dinanzi alla magistratura.
Talvolta, nelle grandi questioni ambientali italiane, lo abbiamo constatato, la forza del diritto è riuscita a prevalere a stento su quella del profitto. (Marghera, Massa, Cengio, Manfredonia, … ne sono gli esempi più recenti)

Confidiamo anche noi in una magistratura, come leggiamo nei quotidiani di questi giorni, che sia sempre più determinata a dimostrare di non essere né asservita né condizionata a forze ed interessi legati ad ambienti politico-economici.






La logica perversa del “profitto e dell’approfitto”, in questo territorio, ha dominato ormai a lungo, troppo a lungo, a danno dell’uomo e dell’ambiente.

Da troppo tempo sugli uomini che vivono e lavorano in questo territorio è stato imposto un pesante fardello da portare, non molto diverso da quello che in altri tempi veniva imposto sugli schiavi:
un lavoro umiliante, anche se in apparenza adeguatamente retribuito;
un lavoro rischioso che lentamente minava l’organismo e che manifestava i suoi nefasti aspetti proprio in quel tempo in cui l’operaio avrebbe dovuto godersi la pensione;
un lavoro “imposto” più che scelto perché non c’erano altre possibilità,
un lavoro considerato solo alla stregua di pura “merce di scambio”,
un lavoro che tantissime volte è sfociato non in una tranquilla vecchiaia, ma nella sofferenza su un letto d’ospedale.

Giudichiamo moralmente aberrante, iniqua ed inumana, oltre che “anticostituzionale”, anche la decisione imposta da talune aziende operanti nel triangolo Augusta-Priolo-Melilli di far sottoscrivere, unitamente alla lettera di dimissioni, una liberatoria per eventuali patologie che potrebbero insorgere successivamente, nell’età della pensione, ma che si potrebbero far risalire a certe lavorazioni, alla manipolazione di talune sostanze, alla frequenza in determinati ambienti lavorativi insalubri, al contatto o esposizione con inquinanti pericolosi, ma di cui gli stessi operai erano stati tenuti (anche deliberatamente) all’oscuro.

Su questo punto, in modo particolare, alle istituzioni, ai medici del lavoro ed alle confederazioni sindacali, vorremmo chiedere un atto di coraggio:
schierarsi dalla parte della Verità, dalla parte dei lavoratori, dalla parte dei più deboli, dalla parte di chi soffre.

I medici di fabbrica o di famiglia dovrebbero essere sempre per deontologia professionale al servizio della scienza e del progresso ma in situazioni simili alla nostra sono apparsi come camici bianchi al servizio del capitale e del profitto.

Ai sindacati, in particolare, vorremmo chiedere di vigilare e di aprire un’altra seria vertenza: non va difesa solo la busta paga, non va difeso solo l’orario di lavoro; il presunto diritto alla sicurezza dopo l'incidente,

dell’operaio va difesa innanzitutto la sua dignità di uomo, va tutelata la sua integrità fisica, va difeso il suo diritto al lavoro e ad un lavoro dignitoso in un ambiente sicuro:
l’operaio e la sua salute non sono merci di scambio e non lo è neanche il suo lavoro.

Riconosciamo che qui, su questo angolo di terra italiana, che non è di seconda o terza categoria, è in atto la palese violazione di almeno due diritti costituzionali: l’art. 1 e l’art. 32.

L’art. 1 della costituzione italiana dove è scritto che:
L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro.
Io non sono né un giurista né un professionista del foro, ma intendo sottolineare con forza, dal mio punto di vista, la radice dell’aggettivo di questa prima norma costituzionale: “democratica”.

Democrazia significa innanzitutto libertà,
democrazia significa giustizia;
democrazia significa forza del diritto sulla prevaricazione,
democrazia significa rispetto della dignità della persona,
democrazia significa diritto a lavorare: a lavorare per vivere ed anche a vivere in un ambiente sicuro.

Oggi non possiamo più definire “progresso” le conseguenze di oltre cinquant’anni di devastazione del territorio e di tutte le sue componenti (aria, mare, acqua, suolo e sottosuolo) da parte del polo petrolchimico;
non si può chiamare “progresso” (dopo 15 anni) la mancata attuazione del piano di risanamento ambientale, né si può contrabbandare per “progresso” la decisione di trasformare prossimamente in una sorta di “gigantesca pattumiera” un territorio che già è una enorme discarica a cielo aperto di pericolosissimi rifiuti.

Neanche possiamo accettare supinamente tutte quelle decisioni, compresa quella del presidente della Regione Sicilia, che mirano ad installare qui tutta una serie di inceneritori, di cui neanche le più grandi metropoli del mondo sono dotate. (Non è nostra intenzione entrare nel guiness dei primati a causa dell’inquinamento e delle sue conseguenze, ma l’atteggiamento delle istituzioni sta facendo di tutto perché questo accada, anche se già per la mortalità per cancro e per le nascite dei bambini malformati vi siamo entrati e siamo saldamente in testa).

Non possiamo parlare di “sviluppo” quando i livelli occupazionali si sono ridotti al minimo indispensabile e tendono ulteriormente a decrescere senza intaccare il profitto dell’impresa;
non è “sviluppo” quando si continua ad accrescere solo la presenza degli impianti chimici senza cominciare a programmare una diversificazione delle attività lavorative future di questo territorio.

Non si può definire sviluppo o progresso quella serie di attività lavorative che hanno generato la sofferenza e le sofferenze di questo territorio, dei suoi abitanti ed anche quelle degli altri esseri viventi di questo ecosistema.
alghe, pesci, molluschi ed altre specie viventi non possono e non potranno mai nè parlare, nè denunciare.

L’altissima incidenza di mortalità per cancro, l’enorme percentuale di nascite di bambini malformati, l’aumento di tante patologie ed allergie alla pelle ed alle vie respiratorie su questo territorio sono anche una palese contraddizione del diritto sancito dall’art, 32 della costituzione:
“La repubblica tutela la salute dei cittadini …..”

La triste vicenda dell’autunno 2002 (sfociata negli arresti di numerosi dirigenti dell’Enichem nel gennaio 2003), quando fu scoperto un gratuito, ma illegale e immorale smaltimento di rifiuti assai pericolosi (smaltimento che si protraeva da tempo), ha messo in evidenza - e lo ha ben percepito la magistratura - che in questo territorio persone senza scrupoli, asservite alla sola logica dell’avere più che dell’essere, hanno agito IN DISPREZZO DELLA VITA.
Tale denuncia, com’è noto, non è partita da chi, a livello istituzionale, avrebbe dovuto vigilare e controllare, ma da comuni cittadini allarmati da una vistosa strana chiazza rossa nelle acque del porto di Augusta.

Qui si potrebbe aprire un altro capitolo: quello dei controlli e dei controllori:
non è più accettabile che controllori e controllati siano le medesime persone o aziende. Lo insegna anche il solo buon senso.
In tantissime occasioni, dopo gravi situazioni di inquinamento, non è stato possibile accertare alcuna responsabilità e si è cercato di negare perfino l’evidenza. (Pensiamo, ad esempio, alla nube tossica del novembre 2004)

Bisogna avere il coraggio di disancorare i controlli dal privato: i controlli devono essere realmente pubblici, imparziali, e nel rispetto di quella norma legislativa e, soprattutto etica, secondocui le leggi vanno rispettate e che “chi inquina paga”.

Fino ad oggi, salvo autorevole e credibile smentita, su questo territorio hanno pagato solo gli inquinati, mentre hanno lucrato bene con la già ricordata cultura “del profitto e dell’approfitto” le aziende e le multinazionali che qui si sono impiantate. E per di più, la grande ricchezza economica prodotta qui, - e oggi possiamo ben dirlo - “a prezzo di sudore e sangue”, è stata trasferita altrove, lasciando qui solo le briciole e l’illusione dello sviluppo mancato.

Oggi, corriamo, anche un altro rischio: quello di vedere fuggire, giocando maldestramente d’astuzia sull’equivoco dell’incompatibilità ambientale, queste aziende in altre nazioni più povere, (ci auguriamo non sprovvedute) dove potrebbero trasferirsi per continuare a produrre ed inquinare e, soprattutto, a guadagnare così come hanno fatto qui, fino adesso.

Se queste aziende dovessero andarsene (e ciò accadrà sicuramente tra non molto per ben altre ragioni) correremmo anche un altro rischio non secondario: quello di dover risanare a nostre spese - e non da chi ha inquinato - il territorio dismesso.

Non possiamo accettare anche la beffa oltre il danno.

Alle aziende presenti su questo territorio chiediamo tutto l’adeguamento tecnologico per limitare l’inquinamento, reinvestendo nella manutenzione e nella messa in sicurezza degli impianti i loro profitti.

E’ necessaria, quindi, oggi, una presa di coscienza forte, decisa sulla questione ambientale. Non basta la tardiva dichiarazione di area a rischio di crisi ambientale, se a questa non segue il decollo di un vero piano di risanamento.
Stiamo aspettando da almeno quindici anni questo risanamento che non è mai arrivato.

Non servono le dichiarazioni rassicuranti dei politici e degli amministratori che millantano decine posti di lavoro ad ogni ulteriore insediamento (mentre quasi in punta di piedi altre centinaia di operai vanno in pensione senza essere sostituiti).
E’ necessario respingere con forza il ricatto occupazionale.
E’ necessario ristabilire il diritto e i diritti su questo territorio.
Il lavoro, e talune forme di lavoro, su questo territorio, non sono certamente frutto di una scelta veramente libera.

Vogliamo persone, amministratori, tecnici, veramente “liberi” nella mente e nel cuore che rompendo indugi e compromessi si impegnino con la loro intelligenza e la loro competenza anche professionale, per ridare speranza a questa popolazione, per evitare che, oltre ai pesci, le vittime umane sacrificate sull’altare del falso sviluppo o progresso siano state sacrificate invano.

Forse, dopo oltre mezzo secolo, non sarà più possibile calcolare il numero esatto di quanti hanno pagato con la vita o con danni alla propria salute il lavoro in questo polo petrolchimico, forse non sapremo mai il numero esatto dei bambini malformati o delle vittime innocenti dell’olocausto industriale, ma alla memoria di queste vittime, vogliamo dedicare questa prima giornata della memoria.

Dai tempi della prima guerra mondiale ricordiamo ogni anno i caduti delle guerre fino a quelli di Nassyria;
dai tempi della Resistenza ogni anno commemoriamo le vittime delle stragi nazi-fasciste;
oggi vi abbiamo aggiunte anche quelle delle foibe del comunismo e anche quelle degli attentati politici, terroristici e della mafia.


Ma di quel silenzioso massacro quotidiano provocato da un certo genere di lavoro e dall’inquinamento dell’acqua, dell’aria, del mare, del suolo e del sottosuolo si ha paura perfino a parlare.
Anche la logica del silenzio e del pietismo è da respingere con altrettanta forza.
Se qui ci fosse stata una presenza istituzionale a garanzia del lavoro e dei lavoratori, se ci fosse stata una presenza istituzionale a cui rivolgersi per denunciare certi reati, certamente tanti operai avrebbero potuto parlare e denunciare senza subire ritorsioni.

Se facessimo una lista (e sarebbe veramente il caso di farlo con una sorta di libro della memoria - così come ha fatto lo stato di Israele per le vittime della Shoah), se facessimo una lista di tutte le vittime degli incidenti sul lavoro, degli incidenti industriali, dell’inquinamento, sicuramente avremmo una lista assai più lunga di quella di altre stragi o attentati.

Ma poiché questo elenco non è stato ancora scritto ed anche perché tutte queste vittime sono state immolate nell’arco di un tempo molto lungo, e poche alla volta, in una sorta di stillicidio, ne abbiamo perso la memoria, o addirittura, soggiogati dal ricatto occupazionale, le abbiamo seppellite insieme alla nostra dignità.

Queste vittime ci interpellano, ci chiedono di far memoria,
queste vittime ci chiedono giustizia,
queste vittime esigono rispetto ed un doveroso riconoscimento non solo da noi ma anche dalle Istituzioni di questo Paese.

Poiché queste persone hanno lavorato nello spirito della costituzione repubblicana,
poiché queste persone hanno lavorato per il bene della nazione italiana,
poiché queste persone hanno sacrificato la loro vita per garantire un futuro di onestà e libertà ai loro figli, cittadini anch’essi di questa nazione,
vanno riconosciute come vittime del lavoro a cui spetta gratitudine e riconoscenza.

Questa parte del discorso che segue da qui non è stata letta, ma ne è parte integrante

Sarebbe più che doveroso, da parte dello stato, conferire a queste vittime la medaglia d’oro al valor civile per aver contribuito alla crescita della nazione.
Non è che ci interessi una medaglia materiale, ci interessa, invece, il riconoscimento che questa non è più solamente un’area a rischio ma un’area in cui di lavoro si muore.

Per questo la chiediamo alle Autorità di questo Stato per il quale, molto probabilmente, fino ad oggi, siamo stati soltanto sudditi e non cittadini.

Così pure chiediamo un doveroso risarcimento a chi ha inquinato e a chi ha permesso di inquinare:

per ottemperare agli obblighi previsti dal decreto del ministero per l’ambiente del 30 novembre 1990 su questo territorio dovrebbe sorgere una struttura sanitaria pubblica e gratuita di prevenzione e di cura del cancro, adeguata alle dimensioni del disastro ambientale generato.
Come pure dovrebbe essere totalmente gratuita o almeno a carico di chi lo ha generato l’assistenza umana e sanitaria ai tanti malati di cancro di questo territorio.

Non è tollerabile che la gente di questa parte d’Italia debba essere l’unica a pagare di tasca propria ed in termini di danni alla salute ed al territorio mentre in altre parti della stessa Italia si concedano sostanziosi “sconti di stato” su quegli stessi prodotti che, - come già ricordato “frutto di sudore e sangue” - partendo da qui vengono commercializzati su tutto il territorio nazionale.

Augusta Priolo e Melilli non sono né colonie né terre di conquista.
Se dovesse permanere questa situazione e se dovessero essere istallati gli impianti inquinanti già programmati, si ripeterebbero le stesse condizioni che spinsero a decretare la distruzione di Marina di Melilli.

Allora si ebbe il coraggio di dire: città e fabbriche inquinanti non possono convivere: (mi ritornano in mente situazioni tragiche in cui ci potremmo trovare anche noi - Seveso, Bhopal, Chernobyl - tanto per citare solo le maggiori).
Si stabilì allora, forse unico caso nella storia dell’umanità, di radere al suolo un paesino meraviglioso, preesistente al “progresso”, ma si consentì, ipocritamente, di far continuare ad esistere Priolo facendolo assediare dagli stabilimenti industriali, concedendogli l’autonomia amministrativa …. e le sovvenzioni economiche delle aziende del territorio conquistato a forza di blocchi stradali e manifestazioni di protesta.

Ci sorprende anche lo strano, lungo, indecifrabile silenzio di Melilli. Di tanto in tanto ci pensano le nubi tossiche a svegliarlo per poi nuovamente anestetizzarlo.
È vero. Di fronte all’incertezza del futuro si ha paura. Ma non ci si può rassegnare.

Dall’analisi della situazione igienico sanitaria venutasi a creare su questo territorio, oggi emerge una verità: la fine di Marina di Melilli potrebbe essere una “profezia”: fu facile, allora, “deportare” mille e cinquecento abitanti …. un po’ più in là. Forse si sarebbe dovuto fare onestamente lo stesso con Augusta, Priolo, Melilli per gli stessi motivi.
Ma nessuno ha avuto il coraggio di farlo o di dirlo.

Permanendo così com’è questa realtà, probabilmente, a seguito del prossimo incidente industriale, della prossima catastrofe ambientale, tutto ciò che temiamo potrebbe realizzarsi.

Ed allora, come in una favola, qualche superstite potrebbe raccontare: c’erano una volta, Augusta, Priolo, Melilli, Marina di Melilli……

Ci sono ormai tutte le premesse, se non ci dovessero essere interventi a livello istituzionale, non solo nazionale ma anche locale, (dal Ministero dell’Ambiente, della Salute, Dipartimento della Protezione Civile, all’AUSL DI SIRACUSA) che quello che per il momento è solo un timore rischi di accadere veramente.

E senza alcun eufemismo la TRAGEDIA DI AUGUSTA-PRIOLO-MELILLI passerebbe alla storia come UNA STRAGE DI STATO!

PRISUTTO PALMIRO


Augusta, 21 aprile 2005